Gv 6,60-69 (leggi 6,59-69); Giosuè 24,l-2a.l5-17.18b; Sal 33; Efesini 5,21-32
Al termine del discorso sul pane della vita, Gesù ha ripetuto con insistenza: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna». A questo punto l’incredulità si insinua anche nel gruppo dei discepoli e molti se ne vanno, rinunciando a seguirlo.
Per la verità, Gesù è un maestro sconcertante. Ha costruito tutto il suo discorso sulla parola «carne», la sua carne che bisogna mangiare per ricevere la vita, ed ora conclude: «È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla». Né la carne né il sangue bastano a condurre alla professione di fede: «Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente» (Mt 16,16). Bisogna infatti attendere che la carne e il sangue acquistino il loro significato definitivo nella pasqua di Gesù, perché sia possibile l’adesione decisiva: quando vedrete «il figlio dell’uomo salire là dov’era prima…». «Forse anche voi volete andarvene?». La domanda di Gesù, carica di tristezza, ci costringe a prendere posizione di fronte a lui. Dobbiamo decidere se allontanarci anche noi con i discepoli che smettono di seguirlo o se rimanere col gruppo dei Dodici, che si esprime attraverso le parole di Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna». È il rischio della fede, che non è mai una certezza evidente e scontata, ma è piuttosto la decisione di seguire il Cristo ogni giorno, sostenuti dal pane che egli ci dona, affidandoci a lui solo. Se un cristiano si sforza di essere davvero credente, non potrà non toccare con mano la distanza che separa la sua professione di fede da ciò che egli riesce a tradurre nella realtà concreta della sua esistenza. Ma la fragilità stessa di questa fede è…
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