Giovanni 18,33-37; Daniele 7,13-14; Salmo 92; Apocalisse 1,5-8
«Gesù il nazareno, il re dei giudei»: così è formulato il motivo della condanna di Gesù nell’iscrizione che Pilato fa porre sulla croce del calvario (Gv 19,19), esprimendo la conclusione a cui è giunto al termine del processo, dopo un interrogatorio che Giovanni riferisce nelle sue linee essenziali. Uno strano interrogatorio, in cui l’accusato assume quasi le fattezze del giudice, dominando il dibattito con la forza sovrana della sua parola. Pilato vuol far confessare a Gesù la sua pretesa al titolo di re. Egli non la nega, ma prima di rispondere pone al procuratore romano una domanda preliminare, come se volesse vederlo personalmente coinvolto nella vicenda: «Dici questo da te?». Quindi prosegue: Se si parla di un titolo regale nel senso politico che intendono i miei accusatori, allora no, «il mio regno non è di questo mondo».
Gesù è venuto nel mondo per «rendere testimonianza alla verità». In quanto testimone della verità egli è re, per questo è nato e per questo sta andando incontro alla morte. Non per una verità astratta, e ancor meno per mettere la propria forza spirituale al servizio delle nostre ideologie o per fare dell’Evangelo il motore ausiliario delle nostre ambizioni umane, ma per testimoniare la fedeltà di Dio agli uomini nonostante la loro ribellione e il loro rifiuto della salvezza portata dal Figlio.
Al giorno d’oggi è più facile che in passato non fare della Chiesa uno dei regni di questo mondo. Ma la tentazione di ridurre l’Evangelo all’una o all’altra delle forze politiche della società è ancora attuale. Non dimentichiamo che per esorcizzare questa tentazione Gesù è morto. Vivendo anche noi della sua luce e della sua verità, parteciperemo alla speranza di un regno in cui la chiesa cesserà definitivamente di essere un gruppo sociale fra gli altri, perché in essa Dio sarà tutto in tutti.
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