La celebrazione di Cristo. Avvento e Natale – Anno A
GIOVANNI CHIFARI – GIUSEPPE RUPPI
La Parola letta e meditata nella liturgia della Chiesa
Questo libro è stato pensato per tutti coloro che si sentono chiamati ad una partecipazione più attiva, piena e consapevole alla Messa. Per quanti amano la Parola e credono che essa è decisiva per riconoscere la presenza salvifica di Gesù nell’Eucarestia. Per i sacerdoti, catechisti, insegnanti, operatori pastorali, ma anche studenti di teologia, secondo lo stile suggerito da frate Francesco al confratello Antonio, studiare, “ma senza estinguere lo spirito di santa orazione”. Non accontentiamoci di una presenza superficiale alla Messa, entriamo invece nella divina liturgia imparandone lo spartito. Il tempo trascorso meditando la Parola del Signore non è mai perso. Non temiamo la fatica di accostare lo studio alla preghiera.
Il tempo di Avvento ci inviterà a riflettere sul senso dell’attesa, sulla speranza, sulla gioia ma anche sull’atto del vegliare e discernere. Nel tempo di Natale riscopriremo la crucialità dell’Incarnazione del Verbo, per riconciliarci con la storia e non rifugiarci nella gnosi. In più saranno offerti delle introduzioni liturgiche per ogni tempo e dei percorsi biblici sul profeta Isaia, sulla 1 lettera di Giovanni e sulla lettera ai Colossesi. Ogni Domenica dei tempi di Avvento e Natale sarà inoltre commentata in ogni sua antifona e orazione e nella liturgia della Parola.
http://www.ifpress.com/It/Libro/3/229/La_celebrazione_di_Cristo_Avvento_e_Natale_%E2%80%93_Anno_A
La via della Sapienza e del discernimento
L’ascolto nel libro dei Proverbi
di Giovanni Chifari
Lettura biblico teologica di Proverbi 1-9.31 in una prospettiva pedagogica. Un cammino sapienziale per guidare il giovane e il credente all’incontro con Dio secondo le Scritture. Il commento si sviluppa in dieci capitoli in cui l’autore si confronta con i diversi metodi e approcci al fine di arricchire l’ermeneutica biblica. Dal contributo “classico” del metodo storico critico a quello delle scienze umane (antropologia, sociologia, psicanalisi), lasciando spazio al dialogo con i padri della Chiesa.
http://www.edizionimessaggero.it/ita/catalogo/scheda.asp?ISBN=978-88-250-4751-6
BIBBIA IERI E OGGI è un’accattivante Rivista biblica, edita da Elledici, con approfondimenti di carattere storico,archeologico e artistico riguardanti fatti e personaggi presentati nel Libro Sacro.
iconografia e di articoli scritti da esperti, con interessanti rimandi di approfondimento.
Chiesa: funzionalismo o potenza dello Spirito?
Dire che “la Chiesa sta per rompersi” significa dare voce ad uno spirito di desolazione e di accanimento che mira a diffondere uno stato d’incertezza, di angoscia e di paura e quindi fare propria una profezia di sventura sulla quale si è già espresso abbondantemente ed efficacemente a suo tempo Papa Giovanni XXIII. In realtà lo Spirito Santo è sempre all’opera, continua a guidare la sua Chiesa, facendo nuove tutte le cose, riuscendo cioè a far scaturire le novità dalla continuità, valorizzando l’intima e imprescindibile connessione tra memoria e profezia. Bisogna crederci a questa potenza dello Spirito, ad una manifestazione di exusia che interpella la fede dei credenti a partire dalla professione di quella forza e signoria che abita nel nome di Gesù, in Cristo crocifisso e risorto. In questa luce, quella dello Spirito e del suo primato, che risplendono nella Parola di Dio e nei sacramenti che la Chiesa ci dona, sarà possibile discernere se le attuali questioni che emergono nel dibattito teologico ed ecclesiale, per esempio quella delle donne diacono, siano il riflesso delle attese delle chiese e delle genti o siano realmente mozioni dello Spirito.
Sulle donne diacono
Recentemente Papa Francesco ha voluto ribadire un criterio che da sempre accompagna il cammino della Chiesa: “Non si può andare oltre la Rivelazione”. Lo ha detto all’Uisg a proposito del diaconato delle donne, precisando che «se il Signore non ha voluto il ministero sacramentale per le donne, non va», anticipando così l’attuale orientamento dello studio che ha impegnato la commissione da lui stesso voluta per chiarire quest’importante aspetto.
La questione del diaconato femminile non è certamente nuova, ed ha già prodotto, in questi ultimi decenni, svariati e interessanti studi e proposte, nonché, mi permetto di segnalare, la costante e sapiente attenzione della rivista “Il diaconato in Italia”, l’unica rivista a servizio del ministero dei diaconi, diretta da quasi trent’anni dal teologo biblico don Giuseppe Bellia.
Papa Francesco, nel dialogo con le superiori delle religiose richiamato sopra, ha fatto riferimento all’importanza di individuare un solido fondamento biblico e storico per poter procedere nella riflessione. Proviamo quindi, brevemente, a indicare i nodi maggiori da sciogliere. Le due ricorrenze neotestamentarie che richiamano il diaconato delle donne, Rm 16,1-4 e 1 Tm 3,8-12, invitano ad una certa cautela. Di Febe, come spiega don Giuseppe Bellia è detto, “nostra sorella, diacono della Chiesa di Cencre”, e cioè, «è chiamata con formula maschile introdotta da un articolo femminile (he diakonos)», mentre «la famosa inserzione sulle “donne diacono” o delle “mogli dei diaconi” di 1 Tm 3,11 ancora oggi affatica e divide esegeti e teologi». La stessa vicenda dei sette, narrata in At 6, non appare per nulla configurata in modo ministeriale e inoltre questi uomini non sono mai chiamati diaconi. Sappiamo poi, dalla storia dei primi secoli cristiani, della netta distinzione di prassi e di approccio tra Chiesa d’Occidente e Chiesa d’Oriente: nessun valore sacramentale per il diaconato femminile nella prima, dove solo tardivamente, nel secolo VIII si fa menzione del diaconato femminile intendendolo però come un titolo onorifico da attribuire a donne consacrate o abbadesse; forse sì nella seconda, anche se bisogna pur dire che la testimonianza delle Costituzioni Apostoliche, redatte in Siria verso il 380 d. C., è forse un unicum. Fermandoci al testo delle Costituzioni Apostoliche, quello cioè che più chiaramente fa riferimento alle donne diacono, «c’è una precisa distinzione tra cheirotonìa (imposizione delle mani) e cheirothesia (gesto di semplice benedizione: cf. VIII 16-23). La cheirotonia, secondo le Costituzioni Apostoliche riguarderebbe le ordinazioni sia degli episcopi, presbiteri e diaconi, ma anche di diaconesse, suddiaconi e lettori, anche se questi ultimi due erano conferiti fuori dal Santuario. Permane dunque la questione: si tratta di un’ordinazione sacramentale con epiclesi o solo di una benedizione? Interrogativo ancora irrisolto, anche se limitato ad alcune chiese della sola tradizione orientale, perché nella chiesa latina occidentale il problema non si è mai posto. A riguardo Papa Francesco ha detto alle superiori generali delle religiose: «La forma di ordinazione non era la formula sacramentale, era per così dire […] come oggi è la benedizione abbaziale di una badessa, una benedizione speciale per il diaconato». Esattamente in linea con gli studi del teologo biblico Bellia.
Tuttavia la vera questione teologica, sottesa a tutto il discorso sul diaconato delle donne è quella del rapporto con il sacerdozio di Cristo. Realtà che ha animato per anni l’appassionato dibattito tra due dei più autorevoli studiosi in materia, padre Geroges Martimort e padre Cipriano Vagaggini, monaco camaldolese. Per il primo le diaconesse sarebbero prive del carattere sacramentale, si tratterebbe solo di un titolo, per il secondo, in particolar modo nella tradizione bizantina, l’ordinazione delle diaconesse sarebbe connessa con quelle dei vescovi, presbiteri e diaconi. Padre Pietro Sorci, che ha compiuto degli studi sui testi liturgici e le preghiera di consacrazione delle donne diacono nelle chiese di Siria e di quelle caldee ed armene, ha individuato alcuni compiti delle donne diacono: «compiere le unzioni nel battesimo delle donne (per una questione di decoro), sorvegliare le porte della chiesa, educare nella fede le donne». Inoltre, confrontando i testi delle preghiere dell’ordinazione del diacono presenti nelle Costituzioni Apostoliche, il frate minore, docente emerito di Liturgia presso la Facoltà Teologica di Sicilia, ha osservato che nell’ordinazione del diacono di sesso maschile «si prega perché possa svolgere il ministero a lui affidato (leiturghèsanta tèn encheiristheìsan diakonian) […] mentre nel caso delle diaconessa si chiede soltanto che possa compiere degnamente l’opera a lei affidata (epitelein tò encheiristhèn autè érgon)». Le Costituzioni Apostoliche vietano alle diaconesse di svolgere funzioni liturgiche (III 9, 1-2).
Una diaconia al femminile: la diaconia materna della Chiesa
Da questa breve analisi è evidente che il dibattito sul diaconato delle donne non può essere affrontato con superficialità o a forza di rilanci giornalistici. Non si tratta, infatti, di essere tifosi per una linea o un’altra, né di schierarsi tra i progressisti o i conservatori, né quindi di anteporre le proprie idee alla fede. Ci si potrà invece domandare se ci sia una luce profetica al femminile di cui la Chiesa oggi potrebbe giovarsi, non rintracciandola tuttavia sul solo versante del punto di vista femminile, seppur decisivo e necessario, ma elevandola su un livello più teologico, anzi, intriso, se così possiamo esprimerci, da un inconfondibile profumo pasquale. L’Apostolo Paolo lo ha detto con chiarezza: “Non c’è più giudeo né greco, Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28). Come procedere dunque? Secondo la Scrittura, il primato è da assegnare all’essere in Cristo, all’essere trovati in Lui, rimanere saldi in Lui. È questa la chiamata, lasciarsi conformare all’immagine del Figlio unigenito di Dio, il Nostro Signore Gesù Cristo, crocifisso e risorto (cf. Rm 8,28-30). Prima c’è dunque il Cristo in noi e noi in Lui, il nostro essere Chiesa che vive il primato della sua Parola e dell’Evangelo, e riconosce Cristo nell’Eucarestia e lo serve nei fratelli. Diaconia, quest’ultima, che effettivamente, come fa osservare in un suo libro don Giuseppe Bellia, si caratterizza per un’indole tutta al femminile, una diaconia materna, che può dire tanto circa la dedizione, il servizio e la sequela di Cristo. È forse questo, il tratto di diaconia al femminile che risulta prioritario da riscoprire. «La diaconia della Chiesa – spiega Bellia – è associata all’opera di servizio della Chiesa/corpo di Cristo, della Chiesa/sposa, e perciò ha, o dovrebbe avere, un timbro e un’intensità al femminile, fatta di dedizione generosa e discreta, come ci mostra l’impegno instancabile e perseverante di molte donne nella vita della Chiesa, ancora in gran parte da riconoscere e rivalutare come esemplarità di servizio umile e fecondo» (G. Bellia, Servi di chi. Servi perché. Piccolo manuale della diaconia cristiana, 99). E lo stesso Francesco, nell’Udienza del mercoledì, di ritorno dal viaggio apostolico in Bulgaria, ha voluto raccontare la sua commozione per aver osservato le suore della congregazione religiosa di Madre Teresa, servire i poveri e gli ultimi con grande tenerezza e dedizione.
Non si tratta allora di clericalizzare le donne, o di dividersi intorno alla querelle tra l’opzione di consacrazione religiosa o di ordinazione diaconale. È invece prioritario riscoprire e far conoscere quanto è donato alla Chiesa mediante il servizio generoso e coraggioso, perseverante e fecondo delle donne cristiane. L’esemplarità testimoniale di quante possono considerarsi autentiche discepole di Cristo, può infatti indicarci la via che si deve percorrere per non separare il servizio al Cristo da una vera sequela (cf. Mt 7,21ss). Gesù stesso volle ricordare ai suoi: “Chi mi vuol servire mi segua” (Gv 12,26).
La potenza dello Spirito
E servizio e sequela sono realtà che rispondono al primato dello Spirito e dello spirituale, da non intendere affatto come disincarnato, nella vita della Chiesa. Nel recente discorso al Convegno della Diocesi di Roma del 9 maggio, Francesco ha detto che non bisogna rinunciare al kerigma, inventandosi “sinodi e contro sinodi” ed ha poi aggiunto: «Ci vuole lo Spirito Santo; e lo Spirito Santo dà un calcio al tavolo, lo butta e incomincia daccapo». È necessario infatti non ostacolare la manifestazione della potenza dello Spirito. A riguardo ci ammonisce ma soprattutto ci stupisce l’Apostolo:
“Anch’io, fratelli, quando venni tra voi, non mi presentai ad annunciarvi il mistero di Dio con l’eccellenza della parola o della sapienza. 2Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso. 3Mi presentai a voi nella debolezza e con molto timore e trepidazione. 4La mia parola e la mia predicazione non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, 5perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio (1 Cor 2,1-5).
C’è una forza intrinseca nell’annuncio e quindi nella diaconia della Parola. Ricordava don Giuseppe Dossetti: “La trasmissione della fede non ha bisogno né delle persuasioni, né dei discorsi, né degli argomenti dotti e neppure delle operazioni prodigiose, e che manifesta, se mai, la potenza dello Spirito Santo che è in essa proprio, portando gli altri alla fede, e a una fede che si fonda non sulle argomentazioni e nemmeno sui prodigi, ma su questo contatto di Spirito. Dobbiamo crederlo!” (G. Dossetti, La Parola di Dio seme di vita incorruttibile, 71).
La manifestazione dello Spirito e della sua potenza, risulta quindi insieme irruenta e discreta, e così come accade per la Sapienza divina, essa geme e soffre, e anzi non riesce proprio a convivere con quelle situazioni di non autenticità. Da esse fugge e si discosta.
Il funzionalismo tra gnosticismo e pelagianesimo
Ha ragione dunque Francesco, quando dice che «siamo caduti nella dittatura del funzionalismo» che è «una nuova colonizzazione ideologica che cerca di convincere che il Vangelo è una saggezza, è una dottrina, ma non è un annuncio, non è un kerigma» (Discorso alla diocesi di Roma, 9 maggio 2019).
Il funzionalismo si lega non poco con lo gnosticismo e il pelagianesimo che il Papa ha indicato in Gaudete et Exsultate come i nemici della santità. Si tratta di realtà che interpellano la distinzione tra visione ontologica e funzionale del ministero. Vivere e pensare il proprio essere episcopo, presbitero o diacono all’insegna dell’estrinsecismo, cultualismo, formalismo, cerimonialismo, apparire, presenzialismo, clericalismo ma anche accentuando il trionfalismo e giuridicismo, e quindi la mondanità, significa sbilanciarsi su una visione ontologica del ministero. Questo tipo di “patologia spirituale” rientra sia nello gnosticismo che nel pelagianesimo, perché si manifesta sia come una devianza dell’idea che della volontà, per cui non c’è più profezia e la Parola di Dio appare ingessata, e inoltre, come scrive anche Francesco in GE, si registra una lontananza dai problemi reali del mondo. Ma questo vuol dire allora che una visione funzionale del ministero è quella più corretta? Vediamo prima quali sono le caratteristiche di quest’opzione: interventismo, attivismo, intraprendentismo, enfatizzazione sulle opere di misericordia e sulla ricerca della giustizia, sul servizio verso le marginalità, e quindi verso i poveri, gli ultimi, gli immigrati. Che dire dunque? Certamente quest’opzione appare a prima vista più conforme al Vangelo e quindi più nobile. Tuttavia, rischia di esaurirsi nell’esercizio di atti virtuosi che rimandavano ad un’esemplarità individuale. C’è chiaramente un deficit di ecclesialità, di comunione. Forse la scelta d’insistere su una Chiesa in permanente assetto sinodale può essere vista come una terapia all’individualismo. Ma se la sinodalità non si riscopre come un camminare alla luce della Parola verso l’Eucarestia, non si rischia di oscurare il contributo della grazia sacramentale? In particolar modo di quella mediazione eucaristica che in ultima analisi è la sorgente di un’autentica diaconia? Da dove nascono infatti l’attenzione e la misericordia verso i poveri, gli ultimi e gli immigrati se non dall’Eucarestia? Uno sbilanciamento in senso funzionale può far dimenticare questo decisivo passaggio e far scivolare verso quel pelagianesimo che si denuncia. Sarà invece necessario riaffermare la centralità cristologica del Nome di Gesù, proclamato nella Parola, celebrato nell’Eucarestia, servito nei fratelli.
Giovanni Chifari
La Quaresima con Paolo
Un percorso biblico per il tempo di Quaresima
Per chi volesse seguirlo su Radio Divina Misericordia:
Pedagogia biblica dell’ascolto
I temi del Tempo di Quaresima
II Domenica: fatevi miei imitatori
A Cristo, roccia spirituale
III Domenica: Abitare da convertiti, sollevati dalla Misericordia
IV Domenica: Abitare con fede viva e generoso impegno verso la Pasqua
Lasciatevi riconciliare con Dio (Commento a 2 Cor 5,17-21)
V Domenica: Guadagnare Cristo ed essere trovati in lui
Commento alla Seconda Lettura della V Domenica di Quaresima
LIBRI
La celebrazione del mistero di Cristo. Quaresima e Pasqua.
1. Comprimi Signore i nostri vizi
2. Crescere nella conoscenza del mistero di Cristo
3. Vincere le tentazioni con la parola di Dio
4. “Purifica, Signore, gli occhi del nostro spirito”
5. Il torpore divino
6. Fatemi miei imitatori
7. Cristo trasfigurerà il nostro corpo
8. Vegliando, videro la sua gloria
9. Ci sollevi la tua misericordia
10. Mosè, vita e tempi
11. Se non vi convertite (Sal 102)
12. Invito alla conversione: l’attesa divina
13. La Parola purifica la preghiera
14. Rallegrati Gerusalemme!
15. Con fede viva verso la Pasqua
16. Gustate e vedete com’è buono il Signore
La celebrazione del mistero di Cristo. Una riflessione per il tempo di Avvento e di Natale,
Anno C
Commento di Giovanni Chifari
1. Incontro al Signore che viene
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2. Il Signore manderà la sua “parola buona”
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3. Crescere e sovrabbondare nell’amore
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4. Le due venute di Gesù
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5. Come non appesantire i cuori
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6. Il Signore ascolta il grido dei popoli
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7. La “Parola” del Santo che consola
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8. In ascolto della Parola
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9. Una Parola che invita alla conversione
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10. Il senso dell’attesa e delle vigilanza
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11. Rallegratevi!
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12. Il Signore tuo Dio, in mezzo a te, è un Salvatore potente
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13. Siate sempre lieti nel Signore (che è vicino).
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14.”Che cosa dobbiamo fare”?
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15. Fare esperienza di Dio e testimoniare la novità della nostra relazione con Lui.
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16. “Tu sei mio Figlio, Io oggi ti ho generato”
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17. “Nasce il Redentore, povero e umile”
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18. “La Santa Famiglia, modello di accoglienza e docilità alla Parola”
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19. Maria, Vergine e Madre, accoglie e genera nel suo grembo Colui che dona i beni della salvezza
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20. Maria, dimora Santa, accoglie il Verbo e porta frutto
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21. Gesù, re delle genti: la gioia cosmica della Chiesa
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22. Con degno affetto e con sguardo puro per contemplare i divini misteri”.
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23. Il Battesimo come epifania dell’identità di Gesù
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24. Battesimo, preghiera e dono dello Spirito
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25. Il Battesimo di Gesù come solidarietà con i peccatori
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26. Il Battesimo verso la croce e in vista della glorificazione
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27. Il Battesimo di Gesù, il permanere del Paraclito e la nostra divinizzazione
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I GRUPPI DI PREGHIERA DI PADRE PIO.
Origine, spiritualità servizio.
Il testo “I Gruppi di Preghiera di Padre Pio. Origine, spiritualità e servizio ” è stato presentato ne corso della Rubrica “Tra le righe”, condotta da Paola Russo, in onda il giovedì ore 16.15 su Padre Pio TV.
https://www.youtube.com/watch?v=zfqzfyyYQ8E&feature=youtu.be
Per leggere la recensione di Maurizio Schoeplin pubblicata su Toscana Oggi cliccare QUI
ARTICOLI
Conversione del cuore e sinodalità
Il diaconato in Italia, 2018, anno 50, n. 213
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Dossetti e la sua “ fedeltà a Dio e al mondo”
Un commento in memoria del prete-teologo-giurista-politico a 20 anni dalla morte
Pubblicato su La Stampa il 15/12/2016
A vent’anni dal 15 dicembre del 1996, la memoria di don Giuseppe Dossetti sembra ancora dover esprimere tutto il suo valore profetico e testimoniale.
Chi l’ha conosciuto vede nella sua «fedeltà a Dio e al mondo» (G. Bellia) uno dei paradigmi più eloquenti per interpretare la sua esistenza. Fedeltà nel senso di sponsalità in Cristo e nella Chiesa e per questo anche verso la storia, com’è detto nel salmo: «Di te si dicono cose gloriose città di Dio» (cf. Sal 87,3). Gerusalemme come madre di tutti i popoli, vale a dire cioè che chi è in Dio, abita la città degli uomini nella costante tensione fra memoria e profezia e diviene come una sorgente dalla quale si diffondono diversi fiumi. C’è un’universalità del pensiero di Dossetti che è difficile abbracciare prescindendo da questo suo percorso nuziale, una polisemia impossibile da declinare scindendo il cammino dell’uomo da quello del discepolo, e in ultima analisi un’armonia che stenta a risuonare enfatizzando un solo interludio perché c’è anche dell’altro e inoltre si sa, anche il silenzio è musica e fa parte dello spartito.
83 anni, passando per due guerre, nato infatti il 13 febbraio del 1913, alla vigilia della prima, e poi 30enne nel pieno vortice della seconda, impegnato nella «Resistenza», e ci teneva a puntualizzare «senz’armi». Una traiettoria biografica che si può dividere in due grandi tempi, separati in ordine al tipo di servizio, ma profondamente interconnessi e sempre intimamente legati: la diaconia politica e la diaconia ecclesiale. Alla prima fase appartiene il tempo della formazione, dello studio, della docenza universitaria e dell’attività politica nella Dc e nella Costituente; mentre alla seconda il tempo del sacerdozio, del Concilio, della «Piccola Famiglia dell’Annunziata». Due tempi circa quarantennali, segnati dallo spartiacque del 1952 quando Dossetti si ritira dalla vita politica e fonda a Bologna il centro di documentazione per gli studi religiosi, nella convinzione, rileva Bellia che «il rinnovamento della cultura teologica italiana avrebbe fattivamente contribuito al rinnovamento culturale e politico del Paese» (AaVv, «Al primo posto le Scritture», 94). Un passaggio nel quale la fedeltà a Dio e al mondo appaiono in tutta la loro forza di interconnessione. Il legame fra cultura teologica italiana e cultura politica del Paese emergerà nuovamente nel 1994 quando Dossetti a due anni dalla morte, nel noto discorso di commemorazione dell’amico Giuseppe Lazzati, osservando la «perdurante debolezza e fragilità di itinerari cristiani che non giungono a riordinare o impregnare le realtà temporali secondo l’Evangelo», rilevava che era opportuno ripartire dal «compito della formazione delle coscienze», un cammino da intendere non come l’espressione di «una soggezione passiva» o di «una semplice religiosità», ma come la possibilità di «un cristianesimo profondo e autentico» che desse luogo a «un’altra eticità privata e pubblica». Ricostruire le coscienze e valorizzare il loro «peso interiore» avrebbe potuto dare un nuovo impulso culturale, sociale e politico. Era questo il modo per «uscire dalla notte».
La diaconia politica in Dossetti si lascia declinare come una «disponibilità a fare» e non «una missione a fare», una gratuità disinteressata, aperta anche all’insuccesso. Come quello che lui stesso dovette accettare nel 1956, quando per obbedienza si candidò come sindaco di Bologna, perse le elezioni, ma vide riconoscere gran parte dei suoi meriti dall’opposizione che accolse lo strumento del suo «Libro Bianco» sulla città. Per Dossetti il servizio politico andava interpretato come un tempo stabilito e contingente, per cui licenziava l’ipotesi di quei politici di professione tali per trenta o quarant’anni, motivando la sua opinione a partire dalla visione del senso globale della storia nella quale «Dio non può volere che noi siamo immersi sino a questo punto nel contingente. Dio ha un altro disegno su ciascuno di noi, qualunque sia la nostra attività».
Questa visione ampia della storia personale e globale in lui non venne mai meno. Il 22 febbraio del 1986 alla consegna dell’«Archiginnasio d’oro» a Bologna, ricordando gli anni in cui insegnava Diritto, confessava di continuare a «coltivare nel cuore in una meditazione esistenziale, sui massimi sistemi: lo Stato, la Chiesa, la società civile e politica e la comunione ecclesiale». E anche la scelta della vita monastica era da lui vista come comunione «non solo con l’Eterno, ma con tutta la storia, la storia della salvezza».
Fedeltà a Dio e al mondo dunque, una sponsalità che si lascia capire e comprendere dentro la circolarità teologale tra Parola, Eucarestia e servizio dalla quale si riflette quel «segreto di luce» (Bellia) che lega e spiega la diaconia di Dossetti come espressione di amore, di carità. E allora fin dalla gioventù la sua «concentrazione riguardava la vita spirituale e religiosa» (P. Pombeni, «Dossetti», Treccani) e i suoi stessi «voti privati» di castità si leggono come itinerario di preparazione a una sponsalità che dovrà gradualmente imparare che cosa significhi amare e servire. Processo d’incarnazione che rende il discepolo, anche inconsapevolmente in questi percorsi propedeutici, conforme al «Maestro». Ed ecco il suo impegno dentro la storia, nella cultura e nella cittadinanza. Nel cuore gli esempi, di don Dino Torreggiani e don Leone Mondelli, mediatori dei valori del servizio agli ultimi e del primato della Parola. I doni dello studio e della ricerca sono messi a servizio della comunità ecclesiale e civile, luogo di esperienza di cosa significhi accettare e accogliere l’inevidenza cui è chiamato il discepolo di Cristo.
Realtà che Dossetti raccontava definendosi, molti anni dopo, un «prestanome» o al massimo «un riferimento», oggi si direbbe anche ghost writer. Si pensi qui agli studi sui laici e istituti consacrati presentati sul tavolo di Pio XII. La democrazia, la Costituente, la Repubblica, lo Stato trova nella sua disponibilità una feconda diaconia e nel decennio successivo anche la Chiesa ne sperimenterà la mediazione nel Concilio, quando bisognava dare ordine, disciplina e orientamento. Il cammino di Dossetti indica in un certo modo la traccia di quella stagione profetica della Chiesa: l’incontro provvidenziale con il cardinal Lercaro, avvenuto proprio nel giorno della morte del padre, il suo sacerdozio (gennaio 1959), l’annuncio di Giovanni XXIII d’indizione del Concilio (gennaio 1959), la Piccola Famiglia dell’Annunziata, «luogo» centrato sul primato della Parola e dell’Eucarestia, paradigma conciliare, eredità per la Chiesa del terzo millennio. Perché quando si vivono il primato della Parola e la centralità dell’Eucarestia, subito si riscoprono i poveri, per cui si entra nel mistero del sacrificio di Cristo e lì s’impara cos’è il servizio. Da qui nasce quella Chiesa povera per i poveri, che trova la sua cifra nel ripristino dell’ordine del diaconato permanente e anche uxorato, che stava tanto a cuore di Dossetti. Per anni ripeteva: «La Chiesa non si serve del diaconato», e poi continuava: «Dove c’è la presenza di un presbitero e di un diacono ivi c’è la Chiesa e l’Eucarestia».
Se un albero, come insegna il Vangelo, si riconosce dai suoi frutti e un albero buono fa frutti buoni, nel servo umile e fedele, Giuseppe Dossetti, questi furono particolarmente fruttuosi e abbondanti.
La sua attenzione al senso globale della storia e nello stesso tempo la capacità di leggere nel profondo quanto Dio intende comunicare all’uomo mediante il dispiegarsi degli eventi; il dono di riuscire a svelare le patologie che caratterizzavano gli uomini del suo tempo; la sensibilità nel cogliere la realtà della kenosi come chiave di lettura della teologia del dopo Auschwitz, insieme a quella ricerca di senso del silenzio di Dio, lo stesso verso il quale anch’egli si volse, per ventisei anni, abbracciando l’esperienza monastica e dove poté accogliere la Parola vivificante dell’Evangelo. E ancora l’egemonia della Scrittura, la circolarità tra Parola, Eucarestia e servizio, la sua ecclesiologia di comunione, e quindi il Concilio interpretato né come evento di rottura, né come luogo di conservazione ma come un evento di grazia, la sua proposta, condivisa con il Lercaro, di una Chiesa povera per i poveri, che trova nel Cristo, povero e carico della croce, il suo modello normativo (cf. Lg 8). E da lì la restaurazione del diaconato.
Il cardinal Carlo Maria Martini in un contributo, inserito nel libro curato da don Giuseppe Bellia, «La Chiesa diaconia universale di salvezza», edito per le edizioni San Lorenzo, ha riproposto e commentato una conversazione privata, poi trascritta, avuta con Dossetti nel 1966 alla fine del Concilio. Dossetti, scrive Martini, era consapevole che una teologia del diaconato non sarebbe sorta subito ma solo dopo che il ministero fosse stato vissuto per un certo tempo nella prassi e vita delle nostre Chiese, visto i secoli di atrofia. Il Cardinale ricorda inoltre che Dossetti considerava quello del diaconato il tema «più importante dell’ecclesiologia concreta dell’avvenire», si soffermava sul fatto che già a Trento se n’era decisa la restaurazione e che, partecipando realmente all’ordine sacro, il diaconato, per il Porporato profeticamente, fosse una realtà che poteva offrire alle chiese «una localizzazione della grazia sacramentale». Un fattore che sarebbe divenuto una priorità, gli confessava Dossetti che si trattava di uno dei «modi che la Tradizione divina ha già indicato come esistenti nel deposito della rivelazione e dell’istituzione e che si devono, quindi, a priori presumere ricchi ed efficaci». Per questa ragione Dossetti vedeva «l’introduzione di un diaconato molto largo», «irraggiato» e «decentrato», e cioè come «il punto terminale della inserzione dei carismi sacramentali nel tessuto concreto della comunità cristiana». Punto chiave che per Martini avrebbe potuto generare una reale «trasformazione sociologica di una comunità cristiana» sempre «aderente alla tradizione sacramentale che la caratterizza». Martini suggerisce ancora che Dossetti auspicava una «moltiplicazione dei punti di innervamento» e che il diaconato fosse conferito a soggetti che «vivono il più possibile nella condizione comune».
In conclusione, la fedeltà a Dio e al mondo consegnata alla storia lascia che Dossetti sia annoverato tra i sapienti e i profeti: «Sapienti, che con il loro gratuito servizio sanno custodire e accrescere il tesoro lasciato in eredità da altri» e profeti, «servitori vigili e fedeli che esplorano quel futuro di Dio verso cui uomini e società sono incamminati». Dossetti cioè annoverato tra quei sapienti e profeti che «con la loro fede sofferta e perseverante, scrutando come sentinelle nella notte il disegno di Dio, ne scandiscono i tempi e ne orientano il senso». (Bellia, «Servi di chi. Servi perché», 162).
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“Il ricordo può svilire in routine, il pensiero mai”: la Giornata della Memoria secondo don Dossetti
Pubblicato su La Stampa il 25/01/2016
«Il ricordo può svilire in routine, il pensiero mai». La memoria può non essere bastevole, occorre modificare radicalmente il modo di pensare. È questo l’invito, l’auspicio e in un certo modo anche l’ammonimento che don Giuseppe Dossetti volle suggerire alle giovani generazioni in una delle ultime interviste concesse.
«Rompendo» il silenzio della vita monastica nel maggio del 1994, conversando con Carlo Di Carlo, don Giuseppe parla della strage di Marzabotto, del nazismo, della guerra, pensando in particolare modo ai giovani, che numerosi accorrevano a Monte Sole per fare memoria e per riflettere sull’orrore della guerra. In vista dell’annuale Giornata della Memoria, può essere utile riprendere alcuni spunti del Monaco dei «piccoli fratelli dell’Annunziata», comunità religiosa da lui stesso fondata, per riflettere su quella che egli stesso volle definire «la più grande catastrofe che ha segnato la storia dell’Europa e del mondo». La tragedia del popolo ebraico, la immane sofferenza dell’olocausto era percepita da don Giuseppe in tutta la sua drammatica evenienza, come un unicum, un punto di non ritorno, dal quale si doveva procedere con una rinnovata e illuminata visione del presente capace di costruire un futuro privo di un simile ritorno. In dialogo con lo scrittore ungherese Kertesz, all’epoca autore del testo: «An Olocaust mint kultura», «L’Olocausto come cultura», che individuava l’olocausto come «la situazione dell’essere umano, lo stadio terminale della grande avventura cui l’uomo europeo è giunto dopo 2mila anni di cultura etica e morale», per poi aprirsi a un itinerario di speranza domandandosi «come uscire in avanti dal punto zero cui è giunta la nostra cultura?», don Giuseppe ci consegna parole generate dal silenzio, per lui «la quarta dimensione di tutto», che costituiscono per noi un ammonimento che non può essere trascurato. Il ricordo può divenire oblio, la memoria può svilire in abitudine, il pensiero mai. Si tratta di una conversione intellettuale che tuttavia è sempre preceduta dall’oggettivazione della propria e personale esperienza di Dio, frutto quindi di una conversione di tipo religioso.
Ma a un primissimo livello antropologico e anche come orientamento pedagogico era per lui necessario «inculcare alle nuove generazioni criteri e processi virtuosi che impediscano il ritorno di una simile catastrofe». Non sorprenda l’uso del verbo «inculcare», poiché per Dossetti era urgente imprimere profondamente nella mente e nell’animo una rinnovata opzione metodologica, criteri cioè che lasciassero emergere processi virtuosi. Tutto ciò non doveva avvenire mediante la seduzione, come invece avevano fatto le dittature, ma mediante la persuasione, ovvero un’educazione sapienziale che riprendesse quell’amorevole paideia presente nella Scrittura, capace di orientare e correggere. Si tratta di un’opzione pedagogica che contrasta con le finalità seduttive della dittatura. Ai suoi giovani, alla jugend deutchland, Hitler, nei suoi discorsi gridati, suggeriva invece il verbo «assorbire», invitava a «indurire la tempra», e proponeva quali valori preminenti quelli dell’obbedienza, sopportazione e sacrificio. In modo molto lucido, don Giuseppe Dossetti presentava la seconda guerra mondiale come il naturale punto di approdo di «una formazione ed educazione intenzionale al male». Per questo suggeriva la differenza tra «criminale di guerra» e «criminale in occasione della guerra», l’evento bellico diviene cioè l’occasione e la giustificazione di un itinerario pedagogico volontariamente orientato al male. Quest’esempio storico insieme a diversi altri eventi della stretta attualità, ci mostrano che anche per fare il male ci vuole sapienza.
Riconoscere le voci profetiche
Già al tempo della follia nazista, non erano tuttavia mancate delle voci profetiche che con parresia evangelica avevano chiaramente denunciato il male presente nel progetto hitleriano, pensiamo per esempio al teologo luterano, poi membro della Chiesa confessante, Dietrich Bonhoeffer. Due giorni dopo l’ascesa al potere del Leader nazista, dai microfoni della Berliner Funkstunde, a proposito dell’idea di Führer, senza mezze misure Bonhoeffer dichiarava: se il capo «permette al seguace che questi faccia di lui il suo idolo, allora la figura del capo si trasforma in quella di corruttore… Il capo e la funzione che divinizzano se stessi scherniscono Dio».
Il bel saggio del teologo biblico don Giuseppe Bellia, «Elogio del Frammento. Invito all’etica conversando con Bonhoeffer», guarda alla vita del pastore luterano come un dono di Dio alla Chiesa, e attraverso di essa all’umanità tutta; «un’esistenza teologica» che il teologo può cercare di descrivere «affaticandosi sul paradosso di discernere il passaggio di Dio nella vita dei credenti». Quest’operazione appunto di tipo teologico, lascia intravedere che l’azione che ispirò il Teologo, poi martire a Flossenburg, scaturì da una educazione e formazione alla paideia sapienziale che sgorga dalla Parola di Dio, e non per esempio da un modello di tipo goethiano. In questa prospettiva, l’autore presenta l’esistenza di Bonhoeffer come «partecipazione piena alla kenosi di Cristo nella storia», e «le sue opere, o azioni etiche, nell’alveo della Provvidenza, come azione stessa di Cristo nel suo discepolo», risposta di Dio, dono all’umanità. Il saggio sottolinea altresì che la generazione di giovani venuta fuori la prima guerra mondiale si trovò dinanzi a un vuoto di figure spirituali di riferimento, leggendo in questa luce, la simpatia che Bonhoeffer nutrì per il Mahatma Gandhi. Una «grande anima» capace di generare una grande luce a partire dalla ricchezza antropologica, etica e religiosa della tradizione del suo popolo. Ma in Europa, in un tempo in cui si era reso presente un «vuoto di Parola» (percepito per esempio da quella «Teologia della Parola» che poi approderà al Concilio Vaticano II, sostenendo il dibattito sulla Dei Verbum), si poterono inserire altre parole, urlate e suadenti, che facilmente poterono trovare consenso e sequela.
La Vigilanza
Il linguaggio del dittatore è infatti volontariamente misticheggiante e si pone in un confine ermeneutico molto labile, dicendo bene ciò che bene non è, profittando della generale debacle di discernimento per portare avanti modelli pedagogici e sapienziali ispirati al male. Hitler chiamava i giovani, «miei giovani», si riconosceva cioè una paternità nei loro confronti, e ambiguamente prendeva a prestito una fraseologia che trova un parallelo nella letteratura religiosa ebraico cristiana. Hitler auspicava che i giovani si sentissero parte integrante di «un solo popolo» (ein reich), pensiamo biblicamente al Pastore che con il suo braccio raduna il gregge; professava la pace, e il profeta Geremia stigmatizza chi parla di pace e pace non c’è, e in diverse occasioni, a nome del Reich, definiva i giovani «carne della nostra carne e sangue del nostro sangue», chiara immagine dialogico-relazionale (si pensi ad Adamo ed Eva).
La proposta di don Giuseppe Dossetti, già partigiano senza armi, «me lo potevo permettere», diceva a tal proposito, è invece quella di puntare sul valore di una vigilanza, che egli considerava una delle componenti fondamentali dello spirito, da «orientare tuttavia in modo acuto per la difesa dei valori, non per spirito di vendetta ma a tutela e garanzia di tutti». Tuttavia auspicava altresì che la memoria storica fosse vissuta senza rancore. Non si dovevano cioè alimentare odi e divisioni ma bisognava cercare una vera pacificazione «non dimenticando quelle distinzioni che sono state consegnate alla storia». La vigilanza era cioè per Dossetti, così come lo era stata per Bonhoeffer, un antidoto che poteva impedire di cadere nell’oblio, in quell’indolenza che facilmente diviene apatia e inerzia spirituale. Sosteneva inoltre che «una revisione profonda dell’evangelizzazione» non potesse mai prescindere dall’ascolto della Parola di Dio, dall’avere come centro l’Eucarestia e da questa attingendo il servizio verso i fratelli, in particolare modo i poveri e gli ultimi. Diremmo non un’ecclesiologia di tipo funzionale, sbilanciata sul fare, ma un’ecclesiologia fondata sull’Eucarestia, fons et culmen della vita della Chiesa (che egli raccontava come «epicentro di grandi stragi»), alla quale si arriva attraverso la mediazione della Parola. Significativamente a Monte Sole, don Giuseppe conservava e spesso utilizzava, il calice di don Ubaldo Marchione, sacerdote ucciso dalle Ss a Marzabotto, proprio mentre celebrava la Messa.
Sulla luminosa testimonianza di Don Dossetti e sul tema della diaconia politica si veda anche, dello stesso Autore:
https://www.youtube.com/watch?v=hr9axOnhN4c
E ancora, sul “sindaco santo”, Giorgio La Pira:
htpps://www.youtube.com/watch?v=JSCjmoLzQhI&t=3s
RUBRICHE
LA DIACONIA CRISTIANA. PER UNA SPIRITUALITA’ DEL SERVIZIO.
Rubrica in onda su Tele Padre Pio
La diaconia cristiana 1a puntata: http://www.youtube.com/watch?v=mqU1-FvOkQ4
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La diaconia cristiana 17a puntata: http://www.youtube.com/watch?v=OJ-lZ9Z1AG0
La diaconia cristiana – intervista testimonianza sul diaconato: http://www.youtube.com/watch?v=ogJNZ8ABq0Y
La diaconia cristiana 18a puntata: http://www.youtube.com/watch?v=rb-Ul1PjnkM
La diaconia cristiana 19a puntata: http://www.youtube.com/watch?v=0svfK2VSCFc
La diaconia cristiana 20a puntata: http://www.youtube.com/watch?v=JSCjmoLzQhI
La diaconia cristiana – intervista a Vincenzo Petrolino http://www.youtube.com/watch?v=4ZP9_Hj2vIM