Lc 17,11-19; 2 Re 5,14-17 (leggere 5,1-19); Sal 97; 2 Tm 2,8-13
L’azione di grazie non è semplice riconoscenza umana ma un atto di fede.
Il messaggio delle letture di questa domenica non è un semplice insegnamento sul dovere morale della riconoscenza umana. Naaman Siro passa dalla guarigione alla fede: egli non riconosce più altro Dio se non il Dio di Israele (prima lettura). Il lebbroso dell’Evangelo torna indietro «lodando Dio a gran voce». Il miracolo gli ha aperto gli occhi sul significato della missione e della persona di Gesù. Egli rende grazie a Dio non tanto perché il suo desiderio di guarire è stato soddisfatto, ma perché capisce che Dio è presente e attivo in Gesù. Egli riconosce che Cristo è il Salvatore in cui Dio è presente ed opera non solo la salute del corpo ma la salvezza totale dell’uomo. E questa è fede. In Gesù egli vede manifestarsi la gloria di Dio (Evangelo). Perciò Luca conclude il racconto con la parola di Gesù: «Alzati e va; la tua fede ti ha salvato». Salvato non già dalla lebbra, ma salvato nel senso cristiano del termine.
La salvezza dalla lebbra è solo il segno di un’altra salvezza. Il rendimento di grazie del lebbroso guarito nasce dunque prima di tutto dalla fede e non dalla utilità: è contemplazione gioiosa e gratuita dell’amore salvatore di Dio prima che contentezza per la salute riacquistata. Solo in un secondo tempo include la riconoscenza, ma non il semplice cortese ringraziamento per un beneficio ricevuto.
L’Evangelo non vuole darci una lezione di galateo ma vuole dirci che l’azione di grazie è l’atteggiamento fondamentale dell’uomo che nella fede ha scoperto che la sua salvezza proviene solo dall’azione di Dio in Cristo. Se gratitudine umana e azione di grazie a Dio non si identificano, è anche vero che fra loro c’è continuità. Quando i rapporti personali sono tutti basati sull’utile e sul piacere è ben difficile aprirsi alla contemplazione dell’amore gratuito di Dio. Anzi la mentalità utilitaristica ed egocentrica snatura gli atti religiosi. Se abbiamo perso il senso del gratuito, se le azioni che compiamo hanno il movente nella speranza o nel diritto alla ricompensa, molto probabilmente non possiamo avere l’esperienza della Eucaristia.
L’uomo d’oggi deve scoprire il senso del «ricevuto» per aprirsi al ringraziamento.
L’Eucaristia non è tanto una legge da osservare per avere la coscienza a posto, e neppure soltanto il nutrimento della comunione fraterna. Ma è, come dice il termine, azione di grazie senza altra utilità, senz’altro scopo che se stessa: è la gioia che fiorisce dalla contemplazione del Dio grande nell’amore, che nasce dalla scoperta di essere salvati gratuitamente.
Dall’eucologia:
Antifona d’Ingresso Sal 129,3-4
Se consideri le nostre colpe, Signore,
chi potrà resistere?
Ma presso di te è il perdono,
o Dio di Israele.
L’antifona d’ingresso è presa dal Salmo 129, il celebre De profundis, che è anche uno dei 15 «canti dei gradini», o «delle salite» (Sal 119-133), forse usato mentre i pellegrini nell’ultimo tratto del loro percorso salivano al tempio.
L’Orante, che impersona tutta la comunità, dall'”abisso” non risalibile della sua rovina totale ricorda al Signore, il «Dio suo», che già “gridò”, ossia innalzò la sua voce forte e fervorosa a Lui (v. 1), affinché ascoltasse ed esaudisse la sua richiesta urgente, la sua situazione di disastro non ammettendo dilazioni (cf «2 Salvami, o Dio: l’acqua mi giunge alla gola. 3Affondo in un abisso di fango, non ho nessun sostegno; sono caduto in acque profonde e la corrente mi travolge. 4Sono sfinito dal gridare, la mia gola è riarsa; i miei occhi si consumano nell’attesa del mio Dio» Sal 68,2-4; opp. «52Mi hanno dato la caccia come a un passero coloro che mi odiano senza ragione. 53Mi hanno chiuso vivo nella fossa e hanno gettato pietre su di me. 54Sono salite le acque fin sopra il mio capo; ho detto: “È finita per me”. 55Ho invocato il tuo nome, o Signore, dalla fossa profonda. 56Tu hai udito il mio grido: “Non chiudere l’orecchio al mio sfogo”» Lam 3,52-56). Dall’abisso l’Orante invoca l’Abisso divino di Bontà. Chiede che gli orecchi del Signore («Porgi l’orecchio, Signore, alla mia preghiera e sii attento alla voce delle mie suppliche» Sal 85,6) si tendano, o meglio, che il Signore si faccia vicino e si curi di sentire il grido del suo fedele che implora (vv. 1-2: «Dal profondo a te grido, o Signore; 2Signore, ascolta la mia voce. Siano i tuoi orecchi attenti alla voce della mia supplica»).
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