DOMENICA «DEL PASTORE BUONO», IV del Tempo di Pasqua C

The Good Shepherd and two angels. Mosaic (6th)

Gv 10,27-30 (leggi 22-42); At 13,14.43-52 (13,13-14.43-52); Sal 99; Ap 7,9.14b-17

 

 

Tutto quello che si può dire sul Cristianesimo come esperienza di comunione e di salvezza, si trova sintetizzato nei versetti che concludono il discorso di Gesù sul vero pastore. Dopo un primo sviluppo in cui si è presentato come la porta delle pecore e il loro pastore, Gesù ha interrotto il suo discorso. Ma i suoi avversari non si accontentano di un’allegoria e insistono per una dichiarazione esplicita: «Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente» (Gv 10,24). Per tutta risposta, Gesù si limita a descrivere l’atteggiamento che le sue pecore devono avere nei suoi confronti: è lo stesso che i credenti di ogni tempo dovranno assumere nei confronti dell’inviato di Dio.

La fonte della loro comunione con lui? «Io e il Padre siamo una cosa sola». Gesù non è soltanto il vero, il buon pastore: lo è alla maniera di Dio, nel modo in cui Jahvé, nell’antico testamento, guidava e salvava il suo popolo. L’unione del Padre e del Figlio è la fonte della reciproca appartenenza del Cristo e dei cristiani.

Il mezzo per attingere a questa fonte? «Le mie pecore ascoltano la mia voce… e mi seguono». Il Padre ha affidato le sue pecore a Gesù, e questi dona loro la vita eterna, con una certezza che si intuisce soltanto contemplando la croce. «Non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano». Gesù è nello stesso tempo il pastore e l’agnello immolato: ha pagato la nostra salvezza con la sua vita.

Il fondamento di questa comunione? «Io le conosco». Tra Gesù e i suoi si crea un rapporto di intimità da cui scaturisce un modo nuovo di vivere. Noi dobbiamo vivere in lui come la luce dipende dal sole, come il soffio deriva dal vento.

Tutto questo non avviene senza fatica: il cammino della Pasqua conosce sofferenze che ricordano i dolori del parto, dolori che preludono e fanno sbocciare una vita nuova.

 

Dall’eucologia:

Antifona d’Ingresso Sal 32,5-6

Della bontà del Signore è piena la terra;

la sua parola ha creato i cieli. Alleluia.

 

Il Sal 32 è per intero una poetica e forte dossologia al Signore. Esso in specie è prezioso per la teologia che scaturisce soprattutto dai vv. 6 e 9, che cantano il Signore per l’irresistibile sua Potenza divina creatrice. Con totale facilità infatti Egli crea l’universo con la sua Parola (v. 6a) e con lo Spirito suo (v. 6b), parla e comanda, e tutto esiste (v. 9; rinvio immediato è a Gen 1,1-3.6-7.8-31; a Gdt 16,7; Sap 9,1; Gv 1,1-3; Ebr 11,3 e 1,1-4). Per questo motivo il Signore con la sua Misericordia, ossia il suo comportamento dell’alleanza fedele, riempie la terra intera, l’intero spazio tempo dell’esistenza (v. 5b; anche 103,24; 118,64;   6,3; 11,9; Ab 3,3). Sì che ne gioiscono e lodano i giusti e retti di cuore, celebrando il Signore con Salmi (con cetra e arpa a dieci corde), con il «cantico nuovo», il grande grido di giubilo che sale al cielo (vv. 1-3), a motivo della Parola giusta e dell’Opera fedele del Signore (v. 4). I Padri a partire da testi così densi ed essenziali svilupparono pagine mirabili di teologia trinitaria. La Parola e lo Spirito del Padre sono i fattori della Resurrezione del Figlio e della Pentecoste sui discepoli e proprio questa è la divina Misericordia finale che riempie la terra. L’Alleluia finale si pone come la nota del giubilo adorante e laudante di oggi.

 

Canto all’Evangelo Gv 10,14

Alleluia, alleluia.

Io sono il buon pastore, dice il Signore;

conosco le mie pecore, e le mie pecore conoscono me.

Alleluia.

 

 

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